La storia di Islam Murad Baloch
Riceviamo e diffondiamo
Questa é la storia di un ragazzo, Islam Murad Baloch. Uno dei tanti che hanno attraversato la frontiera del Monginevro.
E’ la storia del suo lungo e difficile viaggio attraverso le frontiere assassine e le loro guardie. Una storia che parla della repressione in Balochisan. Una storia di violenza delle mille frontiere dovute attraversare per fuggire dalla morte.
Lui stesso ha chiesto di diffonderla affinché si sappia la storia del suo popolo e di ciò che i cosiddetti “migranti” sono costretti a subire.
Mi chiamo Islam Murad Baloch, provengo dalle aride montagne del Balochistan. Il Balochisan è un territorio annesso e occupato con la forza dal Pakistan a partire dal 27 marzo 1948. Da quel momento il suo popolo ha lottato per riavere la propria terra e i propri diritti dagli invasori. Il Pakistan ha continuato la sua repressione e crudeltà nei confronti dei balochi, che si ritrovano in una situazione difficile, dato che la loro sopravvivenza e la loro identità sono diventate un punto interrogativo. Il Pakistan li tratta come stranieri in casa loro, ha reso difficili le loro vite nella loro terra d’origine.
Chiunque rivendichi i propri diritti e le proprie risorse viene rapito e ucciso e i loro corpi mutilati vengono gettati nelle aree desertiche. Secondo il report di Voice For Balochistan Missing Person, negli ultimi due decenni più di 53000 balochi sono scomparsi e si sono perse le loro tracce. Io sono uno di loro, una vittima delle sparizioni forzate in Balochistan. Un giorno, alle 3 di notte qualcuno mi ha bussato alla porta, ho pensato che fossero i miei amici che avevano avuto un’emergenza. Ma quando ho guardato nello specchio ho visto un uomo armato sulla porta e ho capito che era dell’intelligence pakistana. Per salvarmi dalla loro crudeltà, sono subito saltato giù dal secondo piano. Mi sono fatto molto male ma almeno ero riuscito a scappare. Ho spento il telefono in modo che non potessero tracciarmi e ho chiamato a casa con il cellulare di un amico per informarli della situazione. Erano molto preoccupati ma hanno ringraziato Allah perché ero ancora vivo. Mia mamma mi ha consigliato di non restare più nel paese: “Qui la tua vita è in pericolo”. Sentire queste parole da mia mamma mi ha scioccato e all’inizio mi sono rifiutato di lasciare il paese, perché tutto ciò che ho era lì: i miei ricordi d’infanzia, gli amici, la famiglia, i miei cari. Lasciare il paese e chiedere asilo all’estero era troppo difficile per me. Non ero per niente pronto a lasciare la mia terra d’origine. Ma mia mamma mi ripeteva che se non avessi lasciato il paese, l’intelligence pakistana non mi avrebbe lasciato vivo, mi avrebbero cercato in ogni angolo del paese. Era quindi meglio andare all’estero. Mia mamma mi ha detto: “Se non vai via ti uccideranno. Allora io non avrò più una ragione per vivere. Mi ucciderò se non vai via da questo paese”. Mi ha obbligato a prendere la decisione più difficile della mia vita. Avevo solo due opzioni: restare ed essere ucciso o andare all’estero. Non ho potuto insistere con mia mamma perché stava già soffrendo per la terribile situazione del Balochistan. Allora mi sono rivolto ai trafficanti per arrivare in Iran.
Al confine con l’Iran hanno caricato me ed altre 50 persone su un pick up, per un viaggio di 1000 km. La macchina era sovraccarica ed era difficile respirare bene. Ho pensato di non riuscire a sopravvivere al viaggio. I trafficanti non ci lasciavano rinfrescare e quando chiedevamo di andare in bagno ci umiliavano e ci torturavano. Era solo la speranza di sopravvivere che ci obbligava ad andare avanti.
Durante il viaggio non ci siamo mai fermati, fino a quando abbiamo raggiunto il confine turco-iraniano. È stato un viaggio veramente soffocante, non riesco a spiegarlo a parole. Ho pensato che la mia vita sarebbe finita lì. A causa del viaggio senza pause, il mio corpo era tutto intorpidito, i reni e i polmoni erano indeboliti. Questo viaggio di 1000 km mi ha traumatizzato. I trafficanti ci hanno trattato in modo disumano durante tutto il tragitto. Le condizioni di salute di alcuni rifugiati erano così compromesse che non riuscivano più a camminare e non potevano quindi attraversare il confine tra Iran e Turchia.
Noi, mentre cercavamo di attraversarlo, siamo stati catturati dall’esercito turco. Ci hanno torturato e ci hanno inflitto delle punizioni disumane. Durante la loro custodia abbiamo sofferto psicologicamente e fisicamente. Poi ci hanno deportato al confine iraniano. Abbiamo chiamato i trafficanti in modo che ci raggiungessero, dato che ci avevano detto di chiamarli in caso di bisogno. Ma quando sono arrivati ci hanno trattato nello stesso modo in cui aveva fatto l’esercito. Erano infuriati perché eravamo stati catturati dalla polizia turca, si sono rifiutati di darci da mangiare e ci hanno avvertito che se fossimo tornati un’altra volta ci avrebbero ucciso. La volta dopo siamo stati di nuovo catturati, torturati e deportati al confine con l’Iran, ma al quinto tentativo ce l’ho fatta. Siamo arrivati alla città turca di Van, a 120 km dal confine con l’Iran. I trafficanti ci hanno portato in un luogo sicuro, ma non avevamo niente da mangiare, non c’erano né la doccia né un posto per dormire e non potevamo contattare le nostre famiglie per avvisarle che eravamo al sicuro. Tutti i rifugiati erano tormentati dalla fame e dalla sete. Poi i trafficanti ci hanno dato una SIM turca per contattare le famiglie per il pagamento. Io avevo 200 dollari, con cui ho comprato una SIM e un telefono, ho avvisato la mia famiglia che ero arrivato sano e salvo in Turchia e gli ho chiesto di pagare i trafficanti. Hanno pagato la somma richiesta. I trafficanti hanno chiamato altri per venire a prenderci e ci hanno assicurato che sarebbero venuti in macchina per portarci a Tatvan. In realtà hanno portato un container e ci hanno fatto entrare in 500. il container non aveva prese d’aria e quindi non riuscivamo a respirare. Dopo 20 minuti di viaggio, la maggior parte di noi ha perso i sensi e abbiamo iniziato a battere sul container per chiedere aiuto.
Dopo un po’ si è fermato e siamo tutti usciti fuori. Nello stesso momento è arrivata la polizia turca. Ci hanno fornito il primo soccorso e hanno portato in ospedale chi era in condizioni più critiche. Io sono stato portato alla stazione di polizia, perché volevano deportarmi al confine, ma sono scappato. Mi hanno ordinato di fermarmi ma non l’ho fatto. Mi hanno sparato ma sono riuscito a scappare. Mi sono accampato in montagna nel pieno della notte senza cibo e senza acqua. Ho chiamato i trafficanti, mi hanno assicurato che sarebbero arrivati l’indomani ma sono arrivati dopo 3 giorni. Ero tormentato dalla sete e stavo morendo di fame. I trafficanti mi hanno portato sulle montagne e poi in un campo profughi per gli afghani. Anche lì c’era la polizia, mi hanno catturato di nuovo per deportarmi al confine con l’Iran, ma sono scappato. Mi hanno sparato, ma non mi sono fermato perché avrei dovuto pagare di nuovo se mi avessero deportato in Iran. Non mi interessava più la mia vita, la morte non aveva più senso per me. Se fossi morto sarebbe stato meglio, mi sarei liberato di quella vita soffocante. Ho chiesto ai trafficanti di portarmi in una città sicura se li avessi pagati il doppio, ma si sono rifiutati per paura della polizia. Ero molto infastidito ma ero ancora ottimista. Perché è la speranza ciò che ci tiene in vita. Ho deciso quindi di andare a piedi da Caldiran a Patnos. Patnos è una città più grande a 115 km di distanza, in cui avrei potuto comprare un biglietto per Istanbul. Sono andato al mercato più vicino e con 200 dollari ho comprato uno zaino e un po’ di cibo e sono partito per Patnos. Di giorno camminavo vicino alla strada e di notte dormivo. Dopo un giorno e mezzo di viaggio sono stato catturato da alcuni civili, che mi hanno portato nella stazione di polizia più vicina. La polizia mi ha poi portato in un posto che sembrava un garage, in cui c’erano anche alcuni rifugiati arabi. Sono scappato dal garage solo con il telefono e con il caricabatterie. Ho provato a camminare di notte e fermarmi di giorno, ma faceva troppo freddo di notte; ho quindi continuato a camminare di giorno nascondendomi dalla polizia. È stato difficile sopportare il gelo della Turchia. Mi nascondevo nella jungle (nel bosco) e cercavo dei luoghi caldi per passare la notte. Intorno a me sentivo i versi degli animali. Il giorno dopo sono andato al mercato più vicino per compare del sapone per lavarmi e poi ho continuato il mio viaggio. Dopo 5 giorni di cammino sono arrivato in un villaggio curdo. Li ho pregati di darmi un letto e del cibo, avevo viaggiato 5 giorni e non riuscivo più a camminare. Mi hanno detto che mi avrebbero dato tutto, ma non potevano darmi un letto perché la polizia turca gli avrebbe fatto problemi. I curdi mi hanno dato del cibo delizioso, ho pranzato e poi mi sono addormentato lì.
Hanno provato a svegliarmi ma ero così stanco che non riuscivo ad alzarmi. Mi sono svegliato a mezzogiorno, mi sono fatto la doccia e ho proseguito verso la mia destinazione. Ero a 10 km da Patnos. Purtroppo la polizia mi ha visto camminare lungo la strada, mi hanno ordinato di fermarmi. Avevo paura che mi avrebbero deportato al confine con l’Iran e quindi non mi sono fermato. Sono corso via, ma dopo 5 minuti mi hanno inseguito con un drone. Sono arrivati molti soldati turchi che mi hanno ordinato di arrendermi e di togliermi i vestiti. Ho pianto molto. Mi hanno detto che mi avrebbero deportato al confine iraniano: io gli ho risposto di uccidermi o di lasciarmi andare a Istanbul, mi rifiutavo di andare in Iran. Ho fatto pena ai soldati turchi, che mi hanno detto che mi avrebbero lasciato nella città più vicina, dove avrei potuto prendere un taxi per Patnos. Ho chiesto a un tassista ma si è rifiutato per motivi di sicurezza. Ho quindi continuato a camminare e ho chiesto un passaggio ad una macchina che passava di lì. Si è fermata e mi ha portato a Patnos gratis.
Raggiunto Patnos ho preso un biglietto per Istanbul, il viaggio è durato 24 ore. A Istanbul ho contattato il trafficante successivo e sono stato a casa sua per una settimana. Poi ho continuato il mio viaggio verso la Bulgaria con altri rifugiati. Il confine bulgaro è uno dei più pericolosi della regione e per passarlo bisogna camminare 5-6 ore. L’esercito bulgaro ha cani addestrati che possono rintracciare i rifugiati sentendone l’odore. Questi cani sono molto pericolosi e possono fare molto male. Il confine bulgaro è molto rischioso anche perché è recintato e la polizia lo pattuglia ogni 20 minuti. Quando si attraversa questo confine è necessario essere molto consapevoli di ciò che si sta facendo, bisogna muoversi in fretta nella jungle e nascondersi in modo da non essere catturati dalla polizia. Dall’altro lato del confine ci sono altri trafficanti che ti aspettano per portarti a Sofia, la capitale della Bulgaria.
Per attraversare il confine siamo stati guidati dal trafficante tramite google maps, ma purtroppo la polizia bulgara ci ha arrestato. Ci hanno tolto i vestiti, ci hanno lasciato nudi e torturati terribilmente. È difficile da spiegare, certe cose si vedono solo nei film. Mi viene ancora la pelle d’oca se ci ripenso. Ci hanno trattato in modo disumano, come se fossimo animali. Anzi, si prova pena anche a picchiare gli animali, ma questi soldati crudeli non provavano nessun sentimento di umanità nei nostri confronti.
Dopo averci umiliato ci hanno consegnato all’esercito turco, che ci ha dato dei vestiti. Abbiamo poi preso un taxi in direzione di Istanbul, era a 5-6 ore di distanza. Non avevo più soldi quindi il trafficante ha pagato il taxi per me quando siamo arrivati a casa sua. Ho chiamato la mia famiglia per farmi mandare i soldi necessari a continuare. Ero esausto a causa del lungo viaggio. Sono stato qualche giorno a casa del trafficante e poi mi ha portato al confine greco. Avevo preso cibo, acqua e altre cose utili per il viaggio. Siamo arrivati al confine di giorno, abbiamo aspettato la notte e l’abbiamo attraversato tramite un fiume. I trafficanti ci avevano raccomandato di non parlare tra di noi nella jungle e di fermarci a mangiare solo se necessario alla sopravvivenza. Siamo stati molto attenti ma purtroppo dopo 12 giorni di viaggio ci hanno fermato. Ci hanno portato alla stazione di polizia e ci hanno trattato nello stesso modo in cui aveva fatto la polizia bulgara. Ci hanno tolto i vestiti e ci hanno torturato. Avevo perso la speranza di poter sopravvivere in quelle condizioni critiche. È difficile descrivere tutto quello che ci è successo. Le loro torture erano così dolorose che ho sanguinato e vomitato. Poi ci hanno messo il sale nelle ferite in modo da farci provare ancora più dolore e ci hanno versato addosso acqua gelida. Un poliziotto ci ha detto che se avessimo provato ad entrare di nuovo in Grecia ci avrebbero trattato ancora peggio. Gli eserciti bulgaro e greco sono terribilmente razzisti, non provano nessuna emozione verso i rifugiati. Inoltre, l’esercito greco ci ha portato al confine con la Turchia alle 2 di notte senza vestiti e senza scarpe. Avevo tutto il corpo gonfio a causa delle torture. Era così freddo e il confine era così insidioso che non riuscivamo ad andare avanti di notte. Era una situazione così difficile che avrei preferito essere morto. Eravamo all’addiaccio e senza speranze.
All’alba siamo andati nel villaggio più vicino e qui ci hanno dato scarpe e vestiti. Ho di nuovo preso un taxi per arrivare a Istanbul nella casa del trafficante, che di nuovo ha pagato il tassista. Ho chiamato la mia famiglia per i soldi e sono rimasto dal trafficante qualche giorno, poi sono partito verso la Grecia. Per quattro volte sono stato catturato, torturato e deportato in Turchia. Mi ero stancato. Allora mi sono messo d’accordo con un tassista per farmi portare in Grecia in auto in cambio di 5000 euro.
Quando il trafficante l’ha saputo mi ha rinchiuso in una stanza e mi ha torturato a lungo. Mi ha fatto un video e l’ha mandato alla mia famiglia minacciandoli che mi avrebbe ucciso se non gli avessero mandato 5000 euro. Dopo aver ricevuto i soldi mi ha lasciato andare. Era la quinta volta che tentavo di attraversare il confine con la Grecia. Ho parlato con un altro trafficante, che mi ha assicurato che mi avrebbe portato in macchina ad Arriana, un paese greco a due giorni di distanza dal confine. Il trafficante ci ha spiegato dove aspettare la macchina, ma dopo 2 giorni non era ancora arrivato nessuno. Il trafficante si è scusato dicendo che la macchina era rotta e che doveva essere riparata. Ma erano tutte bugie, ci avevano detto che la polizia era all’erta in quei giorni e quindi non potevano mandare una macchina per prenderci tutti. Abbiamo quindi dovuto camminare nella foresta per raggiungere la città di Florina. Purtroppo non ci avevano consigliato bene la strada su google maps e quindi abbiamo finito il cibo molto presto. Ne abbiamo preso altro e abbiamo proseguito ma ancora non c’era nessuna macchina. Il trafficante si è scusato e ci ha detto che dovevamo andare a Cumenthene per raggiungere l’auto. Non avevamo altre possibilità se non seguire le sue indicazioni. Abbiamo continuato il viaggio ma siamo stati fregati di nuovo perché anche lì non è arrivato nessuno e ci ha detto di proseguire verso Xanthi. Il trafficante continuava a darci la speranza di una macchina, ma per 6 giorni siamo sempre rimasti all’aria aperta sotto la pioggia. Il tempo era così brutto che non riuscivamo nemmeno a sederci o a dormire. Stavamo anche morendo di fame. Ci abbiamo messo 28 giorni per raggiungere Salonicco, dove abbiamo preso un biglietto per Atene, la capitale della Grecia. Quando sono arrivato ad Atene ho preso in affitto una stanza per 6 mesi per recuperare le energie, il lungo viaggio mi aveva indebolito e aveva compromesso così tanto la mia salute che sono anche andato da un dottore per un check-up. In tutto il viaggio avevo trascorso 2 mesi tra Iran, Turchia e Grecia. Per la maggior parte del tempo avevo camminato con poco cibo e la mia salute si era indebolita molto.
Per raggiungere la mia destinazione, io ed altri due amici abbiamo iniziato il viaggio verso la Macedonia. Uno di questi due amici era cardiopatico e aveva già avuto due interventi chirurgici in Balochistan, nel 2001 e nel 2002. Ma nonostante tutte le difficoltà, è stato coraggioso e non ha mai perso la speranza durante il viaggio. Siamo sempre rimasti spalla a spalla e non ha mai smesso di motivarci ad andare avanti. Il viaggio sarebbe stato difficile senza una guida che ci indicasse come arrivare nel paese successivo, così abbiamo contattato il trafficante successivo per attraversare il confine con la Macedonia. Ci ha detto di andare a Salonicco e l’abbiamo raggiunto lì nella sua casa. Ci ha poi detto di prendere un treno per attraversare il confine. Non abbiamo preso i biglietti, ci hanno detto di sederci tra i vagoni quando il treno sarebbe partito dalla stazione e così abbiamo fatto, siamo saliti sul treno in corsa. Nessuno sul treno sapeva che c’erano delle persone illegali sedute tra i vagoni, quindi ogni movimento era pericoloso, anche perché c’era il rischio di cadere. Il trafficante ci aveva detto di saltare giù dopo 3 ore di viaggio perché al confine con la Macedonia l’esercito controlla tutti i vagoni. Sul treno c’erano tre aiutanti dei trafficanti, che ci hanno avvisato quando è stato il momento di saltare giù. Alcuni di noi si sono fatti molto male. Ci siamo nascosti nella jungle di giorno e ci muovevamo di notte per attraversare il confine. I 3 aiutanti sono venuti con noi: uno stava all’inizio, uno in mezzo al gruppo e uno alla fine, ci obbligavano a camminare veloci e punivano chiunque fosse troppo debole per proseguire. Ogni volta che dovevamo attraversare una strada ci obbligavano a correre. Eravamo provati e indeboliti dal viaggio ed era difficilissimo correre ma eravamo costretti a farlo. Questo viaggio di 2 giorni senza mai fermarci ha messo a dura prova il mio amico cardiopatico, non riusciva più ad andare avanti. Lui e un altro mio amico sono stati lasciati indietro dai trafficanti perché non riuscivano più a camminare. Nei momenti difficili ero sempre rimasto con loro e li avevo accompagnati, ma l’ultima volta che sono rimasti indietro non mi sono fermato perché ho pensato che attraversare le Forestay Mountains era già difficile per una persona normale, figuriamoci per un cardiopatico. Andando avanti, il mio amico si è perso e quando ho chiesto informazioni al trafficante mi ha risposto che lui non c’era più. Ero scioccato e scoraggiato. Volevo tornare indietro per cercare i miei amici ma il trafficante non mi dava il permesso. Insistendo mi ha detto che mi avrebbe lasciato tornare indietro se gli avessi dato 1000 euro. Gli ho assicurato che avrei chiamato a casa per farmi mandare i soldi ma non mi ha lasciato andare.
Mentre camminavo nel bosco ripido sono scivolato e mi sono fatto così tanto male che non riuscivo più a continuare il viaggio. Il trafficante ha lasciato indietro anche me nella jungle. Ho passato tutta la notte con un dolore fortissimo e il giorno dopo sono andato al mercato della città più vicina, dove ho comprato una SIM e del cibo. Quando ho acceso internet ho ricevuto un messaggio dal mio amico cardiopatico che mi diceva che era sano e salvo e che erano al confine tra Macedonia e Serbia! Ero così felice che non riesco ad esprimere a parole l’emozione che ho provato in quel momento.
Apprendere questa notizia mi ha fatto non sentire più il dolore e la stanchezza, anche se ero ferito ed esausto. Ho camminato 2 giorni per raggiungere la città macedone di Belves, dove ho preso un taxi per andare a Skopje, la capitale della Macedonia. Arrivato lì, ho chiamato un trafficante che mi facesse attraversare il confine. È venuto a prendermi alle 11 di sera. Era un viaggio di 10 minuti in macchina e il trafficante mi ha chiesto 1000 euro, più 50 per il tassista. Li ho pagati e mi hanno portato fino ad una stazione dei bus in Serbia. Essendo tarda notte era chiusa, quindi ho dormito fuori e il giorno dopo ho comprato un biglietto per Belgrado, la capitale della Serbia. Arrivato lì mi sono ritrovato senza soldi.
Ho visto un ragazzo pakistano che aveva un passaporto e che poteva quindi prelevare i soldi dal mio conto senza problemi. Mi ha detto che l’avrebbe fatto in cambio di metà della somma. Non avevo altre opzioni quindi ho accettato l’accordo, ma poi ha preso tutti i soldi ed è scappato. Sono rimasto lì 2 giorni senza sapere cosa fare ma per fortuna il giorno dopo ho trovato un indiano che mi ha aiutato a prelevare i soldi senza volerne in cambio. Ho insistito per dargli qualcosa ma non voleva niente, così gli ho offerto il pranzo. Dopo aver mangiato ho comprato un biglietto per Ljubovija, una città tra Serbia e Bosnia. Per passare il confine bisogna attraversare un fiume quindi ho contattato un trafficante con la barca. Mi ha mandato la posizione del luogo in cui ci dovevamo incontrare quella notte. Arrivato lì ho visto che c’erano anche altri rifugiati che aspettavano per attraversare il confine. Il trafficante ha portato tutti oltre il fiume e poi siamo andati nella stazione più vicina che però era chiusa. Abbiamo passato la notte lì e il giorno dopo ho preso un biglietto per la città bosniaca di Tuzla. Da Tuzla ho preso un biglietto per raggiungere Sarajevo, la capitale della Bosnia, dove ho preso un altro taxi per arrivare al campo per i rifugiati della città. Qui mi sono riposato qualche giorno e poi ho preso un bus per andare al campo di Kladusa Mirle, vicino al confine tra Bosnia e Croazia. Il viaggio è stato lungo e, arrivato a Kladusa, mi sono fermato una settimana e mi sono preparato per la Croazia: ho comprato cibo, acqua e altre cose utili per il viaggio. Siamo partiti in 3 e ognuno di noi aveva 3 bottigliette di acqua da mezzo litro. La Croazia è uno dei confini più difficili da superare perché la polizia ha messo telecamere anche sugli alberi e sulle montagne per arrestare i rifugiati. Ci siamo quindi organizzati per attraversare il confine partendo dalle montagne più alte, in modo che la polizia non ci vedesse, anche se era molto pericoloso e potevamo rischiare di morire. Abbiamo intrapreso il viaggio con molto impegno e serietà, per essere pronti ad affrontare qualsiasi difficoltà, come avevamo fatto nei confini precedenti. Il quarto giorno di cammino ha iniziato a piovere e ha continuato finché non siamo arrivati al confine con la Slovenia. Sul confine c’era un fiume molto grande e molto difficile da superare perché l’acqua era molto alta a causa delle forti piogge. Eravamo esausti per i 15 giorni di viaggio, ma non potevamo dormire altrimenti avremmo rischiato di farci trovare dalla polizia croata ed essere deportati in Bosnia. Finalmente abbiamo trovato un punto in cui il fiume era un po’ più stretto e siamo riusciti a passare il confine. Da lì abbiamo camminato un altro giorno e siamo arrivati a Trieste, in Italia. Dall’Italia ho preso un treno per la Francia e poi sono arrivato in Olanda, dopo un lungo viaggio tra la vita e la morte.
Non consiglio a nessuno di intraprendere questo viaggio, è meglio morire a casa piuttosto di affrontare un viaggio così difficile, umiliante e soffocante. Sono stati i giorni più duri della mia vita ma non avevo alternative, altrimenti sarei stato rapito dall’intelligence pakistana e il mio corpo sarebbe stato gettato nel deserto.
Siamo nati liberi e vivere in modo libero è un nostro diritto fondamentale.
Islam Murad Baloch